Il contesto

1914 - Mobilitazione generale. Il contributo del Tirolo italiano

Con la mobilitazione generale proclamata poco più d’un mese dopo l’attentato di Sarajevo, il 31 luglio 1914, l’intero Tirolo, Trentino incluso, fornì alla compagine militare imperiale nove reggimenti di fanteria oltre a un reggimento di artiglieria da montagna, tre squadroni di Landesschützen a cavallo e reparti minori di gendarmeria e artiglieria da fortezza. Ogni reggimento disponeva teoricamente di una forza di oltre 7.000 uomini: quattro erano i reggimenti dei Tiroler Kaiserjäger (la fanteria di linea tirolese), tre quelli dei Tiroler Lan-desschützen (truppe alpine), due infine quelli della Tiroler Landsturm (milizia territoriale costituita da militari di età compresa tra i 33 ed i 42 anni, ambito d’età successivamente esteso fino ai 50, che avessero militato per tre anni nei Landesschützen o nei Kaiserjäger). Le truppe di lingua italiana rappresentavano circa i due quinti del totale, ma nell’ambito della classe degli ufficiali la loro presenza era del tutto marginale.
A fronte di una popolazione di circa quattrocentoventimila anime, il Tirolo italiano e la comunità ladina fornirono, all’atto della mobilitazione, circa 27.000 militari ai quali altri 28.000 si aggiunsero dal novembre 1914 alla fine della guerra. In tutto erano oltre 55.000 uomini. Non si trattò dunque di un contributo modesto: le valli trentine si spogliarono letteralmente della loro popolazione maschile nel corso del conflitto, anche se il fenomeno non fu immediato. La mobilitazione generale dell’estate del ’14 coinvolgeva infatti, Landsturm a parte, gli abili alla leva tra i 21 e i 32 anni. Nel novembre 1914 vennero richiamati i ventenni mentre, dopo il maggio 1915, la leva in massa richiamò in servizio tutti gli abili alle armi fino ai cinquant’anni. Nel 1916 vennero coinvolti i diciottenni e nell’anno successivo persino i diciassettenni.
I reparti nei quali erano stati inquadrati i trentini vennero coinvolti nei combattimenti sin dai primi giorni di guerra, vivendo il dramma delle disastrose ritirate attraverso le pianure galiziane e i sanguinosi scontri con le masse di fanteria russa sulle creste dei Carpazi. Le durissime perdite subite nel 1914 dalle armate asburgiche non risparmiarono quindi i soldati del Tirolo italiano: lo testimoniano gli organici al 31 dicembre 1914 dei quattro reggimenti Kaiserjäger (che in agosto potevano ciascuno disporre di circa 4.500 effettivi in linea e di una riserva in addestramento in Tirolo di altri 2.500): il 1° reg.to era ridotto a 1.237 uomini, e gli altri a 1.105, 1.328 e 1.012 rispettivamente.
Il pedaggio pagato al grande conflitto dai reggimenti tirolesi di linea fu infatti assolutamente inimmaginabile per chi ancora avesse tentato di ragionare in termini di guerre risorgimentali: i quattro reggimenti Kaiserjäger diedero nel corso della guerra la vita di oltre 20.000 loro soldati, guadagnandosi 133 medaglie d’oro; i tre reggimenti Landesschützen, dal canto loro, immolarono 15.000 soldati e 502 ufficiali, con un bilancio di 144 medaglie d’oro e 2.811 medaglie d’argento.
Il 1915 portò nuovi disastri e molti trentini dovettero prendere la via della prigionia in terra di Russia fra i 100.000 militari asburgici che le forze zariste catturarono alla caduta di Przemysl. A partire da quell’anno, tuttavia, aumentò gradualmente la diffidenza dei comandi austriaci e ungheresi nei confronti dei militari di lingua italiana, specialmente dopo la dichiarazione di guerra dell’Italia. Venne così adottata una sistematica politica di “diluizione” dell’elemento italiano soprattutto in reparti di lingua tedesca, mentre venne grandemente ridotto il numero dei trentini nei tradizionali reparti tirolesi. Quando poi Kaiserjäger e Landesschützen vennero inviati sul fronte italiano, una radicale scrematura venne effettuata concentrando i Trentini nei cosiddetti “Sud-West Baonen”, i battaglioni del sud-ovest, destinati a rimanere al fronte orientale e su quello balcanico prevalentemente a pattugliare le retrovie, a scavare ricoveri e trinceramenti, e in seguito a presidiare la frontiera tra Galizia e Ucraina e addirittura le occupazioni tardive (1918) della lontana Crimea.
L’atteggiamento, spesso inqualificabilmente astioso e discriminatorio, tenuto anche qui da molti ufficiali e sottufficiali di lingua tedesca, e soprattutto ungherese, nei confronti dei militari di lingua italiana non facilitò certo la vita dei trentini, costretti a dimostrare ogni giorno di essere degni di quella fiducia che altri molto più frequentemente di loro tradirono. È appena il caso di ricordare, infatti, che sul fronte orientale interi reggimenti imperiali di nazionalità slava, in particolare ceca e croata passarono talvolta le linee con armi e bagagli, consegnandosi in massa ai russi e determinando situazioni potenzialmente disastrose per lo schieramento austriaco.
La realtà è che i Kaiserjäger ed i Landesschützen trentini di lingua italiana si batterono né meglio né peggio dei soldati delle altre nazionalità trascinate nel vortice del fronte orientale, eccezion fatta, è doveroso ricordarlo, per i reparti di lingua tedesca. Per loro la guerra era arrivata improvvisa, obbligandoli ad abbandonare famiglia e beni per andare a combattere in terre sconosciute contro popoli mai prima incontrati. Fecero ciò che la legge della guerra loro imponeva, con forte spirito di corpo e con la speranza, o il sogno, di un rapido ritorno alle proprie case. Pur senza essere in genere inebriati da travolgente amor di patria, essi accettarono il conflitto e tutto ciò che questo comportava, con rassegnazione e con un innegabile senso del dovere che traeva la sua origine e la sua forza dalla tradizione e dal giuramento di fedeltà all’imperatore.
La nuda realtà delle cifre parla però meglio di ogni elucubrazione su fede e spirito combattivo: a fine guerra ai trentini erano state attribuite 8 medaglie d’oro al valor militare, 160 medaglie d’argento e migliaia di bronzo. Ma sugli oltre 55.000 mobilitati, quasi 12.000 erano sepolti nei cimiteri di guerra della Galizia, della Bucovina, sui Carpazi, sul fronte balcanico e su quello italiano; una percentuale di almeno il 22 per mille dell’intera popolazione, cifra leggermente più alta della media dei caduti di tutte le regioni della duplice monarchia. Più di 14.000 erano inoltre i feriti, mentre 12.000 erano caduti prigionieri. La massima parte delle perdite era avvenuta sugli sterminati campi di battaglia del fronte orientale, dai quali quasi nessuna salma, se non quella di qualche ufficiale, ha mai fatto ritorno.
 

Il fronte orientale

La guerra dell’impero asburgico sul fronte orientale iniziò ai primi d’agosto del 1914, simultaneamente alla “spedizione punitiva” che avrebbe dovuto saldare definitivamente il conto con la Serbia, la nazione che la propaganda imperiale indicava, non senza ragione, come il mandante più o meno occulto dell’assassinio dell’erede al trono austroungarico Francesco Ferdinando d’Asburgo e della sua augusta consorte, avvenuto a Sarajevo il 28 giugno di quello stesso anno.
Le direttive strategiche dell’Austria-Ungheria a oriente prevedevano un’offensiva in direzione nord, dalla Galizia, in modo da tagliare fuori dalle loro retrovie le forze russe del saliente polacco. Era un piano ambizioso, al di là delle effettive possibilità del pur imponente esercito multinazionale che l’impero asburgico poteva mettere in campo. I progetti dell’alto comando austriaco, redatti prima della guerra, erano basati su una stretta cooperazione con le forze germaniche, ma questa non era nell’ordine delle cose prevedibili a breve, dato che la strategia tedesca nel 1914 era orientata verso un massiccio sforzo offensivo contro la Francia. Sul fronte orientale i germanici avrebbero dovuto mantenere una rigorosa difensiva fino a che non si fossero rese disponibili le forze impegnate a ovest. Di conseguenza, una sola armata (l’ottava, agli ordini del generale Max von Prittwitz) era schierata a difesa della Prussia Orientale, mentre quasi vuoto di truppe era il tratto di fronte antistante alla Polonia russa; mancava dunque quasi del tutto il collegamento, da nord a sud, con le forze austriache.
La Russia zarista aveva dalla sua parte il grande vantaggio delle teoricamente enormi risorse umane, ma le immani distanze all’interno dell’impero, l’insufficienza della rete delle comunicazioni viarie e, soprattutto, ferroviarie, la disorganizzazione e le pastoie burocratiche dell’apparato militare ritardarono notevolmente la completa mobilitazione. I piani strategici d’anteguerra avevano previsto che per il 1914 il massimo sforzo offensivo russo avrebbe dovuto essere diretto contro l’Austria-Ungheria. Sin dall’inizio delle operazioni tutta-via, soprattutto per venire incontro alle disperate richieste della Francia (che miravano a richiamare verso est quante più forze tedesche fosse possibile, in modo da ridurre la tremenda pressione cui le forze francesi e inglesi erano sottoposte sulla linea che scendeva dalla Manica ai Vosgi), questi piani vennero modificati così da includere l’immediata invasione della Prussia Orientale. Qui due armate russe penetrarono già dopo la metà d’agosto, conseguendo modesti successi contro le scarse forze tedesche in ritirata e gettando nel panico il generale von Prittwitz, il quale arrivò a suggerire a von Moltke, capo di Stato maggiore germanico, l’abbandono dell’intera regione. Silurato l’inadeguato alto ufficiale, il suo posto venne preso da due generali destinati a una fulminante quanto meritata carriera: Paul von Hindenburg ed Erich Ludendorff.
Sfruttando abilmente le possibilità offerte dalle efficienti linee ferroviarie prussiane, le forze germaniche poterono concentrarsi di volta in volta per battere separatamente e distruggere le due armate zariste, i cui miseri resti ripiegarono in disordine verso la Polonia russa dopo la battaglia di Tannenberg.
Pesantemente sconfitte dai tedeschi nella parte settentrionale del fronte, le forze russe ottennero invece grandi successi più a sud, contro l’Austria, dove peraltro avevano potuto schierare solo una parte delle forze delle quali sulla carta avrebbero dovuto disporre. Infatti, alle 32 divisioni di fanteria ed alle 10 divisioni di cavalleria con 2000 pezzi d’artiglieria messe in campo dall’Austria-Ungheria, il temuto “rullo compressore” zarista potè inizialmente contrapporre 47 divisioni di fanteria, 18 di cavalleria e 3000 cannoni.
Il capo di Stato maggiore austriaco, Conrad von Hötzendorf, nell’ultima settimana d’agosto lanciò un’azzardata offensiva da sud verso nord, dalla Galizia austriaca contro la Polonia russa, addentrandosi profondamente in territorio nemico ed allungando pericolosamente le sue linee di rifornimento. Il gruppo d’armate meridionale russo del generale Ivanoff potè così concentrarsi per realizzare una schiacciante superiorità numerica locale ed investire a sorpresa il fianco destro delle forze d’invasione, gettandole nello scompiglio. Fu una disfatta; sotto l’incontenibile pressione di forze in alcuni casi cinque volte superiori per numero, gli austroungheresi dovettero ripiegare disordinatamente per quasi 100 chilometri, perdendo enormi quantità d’uomini (quasi 300.000 tra morti, feriti ed ammalati, oltre a 100.000 prigionieri) e di materiali. Cadde inoltre in mano russa quasi tutto il territorio galiziano (inclusa Leopoli, per dimensione la quarta città dell’impero) mentre ingenti forze austriache vennero circondate ed assediate nella munitissima piazzaforte di Przemysl.
La prova, inaspettatamente disastrosa, offerta dalle armate asburgiche fu un vero shock per la Germania, che si rese amaramente conto della necessità di sostenere costantemente l’ansimante alleato; principalmente a questo fine vennero quindi spostate dal fronte occidentale forze che in precedenza neppu-re la minaccia contro la Prussia Orientale aveva fatto distogliere dalla guerra contro Francia e Gran Bretagna, e di ciò lo sforzo bellico germanico verso ovest risentì irrimediabilmente.
Nell’autunno 1914 le vicende belliche rimasero a lungo incerte. Dopo una poco convinta offensiva austriaca per rioccupare la Galizia, che alla fine di ottobre aveva ottenuto il temporaneo sblocco di Przemysl, i russi ributtarono le forze austriache fino alle creste dei Carpazi. Ma per la metà di novembre l’offensiva zarista aveva ormai perso mordente soprattutto a causa dei deficienti approvvigionamenti di materiali e munizioni. Le armate russe erano comunque arrivate al campo trincerato di Cracovia ed avevano ripristinato l’assedio a Przemysl ove oltre 100.000 soldati austroungarici rimasero nuovamente intrappolati, stavolta con scorte di viveri munizioni grandemente ridotte a causa del saccheggio delle riserve (mai in seguito ripristinate) avvenuto ad opera delle forze impegnate nella precedente offensiva. Alla fine del dicembre 1914 le perdite complessive delle armate austroungariche sul fronte austro-russo avevano quasi raggiunto la terrificante cifra di un milione di uomini tra morti, feriti, dispersi e prigionieri. I russi, dal canto loro lamentavano perdite leggermente superiori al milione.
Nel gennaio 1915, ufficialmente allo scopo di liberare Przemysl ma in realtà per venire incontro alle sollecitazioni del duo Hindenburg-Ludendorff che premeva per un rinnovato sforzo offensivo dell’alleato, le forze austriache si lanciarono in un’incredibile offensiva invernale ad alta quota, sulle creste innevate dei Carpazi, in condizioni climatiche spaventose. Iniziato con un’avanzata in una accecante bufera di neve, l’attacco condotto in pieno inverno si trasformò ben presto in quello che anche gli storici ufficiali austroungheresi definirono più tardi “una crudele follia”. I risultati furono assai modesti e Przemysl, che non potè essere raggiunta, cadde il 22 marzo per totale esaurimento, consegnando ai russi oltre 100.000 prigionieri e liberando forze zariste in numero sufficiente da consentire alla Stavka (il comando supremo dell’esercito) di contrattaccare sui Carpazi, riguadagnare il poco terreno perduto e superare il crinale montano fino a minacciare la stessa Budapest. Da alcuni dei passi caduti in mano russa, consistenti colonne di cavalleria cosacca poterono infatti, con ardite e velocissime puntate lungo le valli sud-occidentali, portare il panico nelle pianure ungheresi, il “granaio dell’Impero”. Si trattava, data la stagione ormai sfavorevole, di semplici azioni di disturbo, volte a fiaccare la resistenza ed il morale avversari più che a realizzare un vero sfondamento delle linee montane; ma l’impressione che ne ricavò l’alleato germanico fu quella di un imminente collasso dell’esercito austriaco. Ed effettivamente la compagine militare degli Asburgo era allo stremo: fino alla fine del marzo 1915 aveva perduto, sul fronte balcanico e su quello orientale, quasi due milioni di uomini, cioè un quantitativo superiore a quello messo in campo all’inizio del conflitto. Avendo inoltre il sistema di coscrizione obbligatoria meno efficiente tra tutte le potenze in guerra, inclusa la Russia, essa non poteva rimpiazzare agevolmente le perdite. I giovani richiamati nel ’15 avevano dovuto essere arruolati semplicemente perché il sistema non consentiva di richiamare rapidamente in servizio le classi più anziane esentate dalla leva prima del conflitto! Altrettanto disastrosa era la situazione dei rifornimenti del materiale indispensabile ai combattimenti: l’ufficio approvvigionamento munizioni del Ministero della guerra, ad esempio, diede prova di suprema inefficienza riuscendo a ridurre il quantitativo di munizioni fornito all’armata addirittura al di sotto del livello raggiunto dall’arretrato apparato industriale russo. Mentre la Germania riusciva a produrre svariati milioni di proiettili d’artiglieria al mese, nel dicembre del 1914 l’Austria ne sfornò appena 116.000 contro un quantitativo minimo necessario di 240.000!
Di fronte a tale situazione, l’orgoglioso ma realista generale Conrad seppe mettere da parte ogni considerazione personale, ammettendo l’emergenza e invocando apertamente l’aiuto tedesco. La nuova cooperazione, nella quale alle forze austriache spettava un ruolo decisamente subordinato, diede subito i suoi frutti, dopo una sterile offensiva russa sui Carpazi nel mese di aprile, con la grande battaglia di Gorlice-Tarnow.
Illuse dai successi autunnali ed invernali, le forze russe in Galizia avevano imprudentemente adottato uno schieramento ad alto rischio: la loro ala destra, a nord del ben difeso tratto carpatico del fronte, consisteva in una debole linea trincerata modestamente protetta da poche file di reticolati, che saliva a settentrione, costantemente dominata dalle posizioni avversarie, verso la Polonia russa. Essa non aveva fino ad allora dovuto subire veri attacchi frontali ed era la tipica posizione d’attesa di un attaccante sbilanciato in avanti ed intento a riprendere fiato prima di ripartire all’offensiva. In sole quattro ore questa linea venne letteralmente spazzata via dal martellamento effettuato dalle artiglierie germaniche il 2 maggio 1915. L’attacco austro-germanico che seguì entrò nello schieramento russo come una lama nel burro, aprendo tra le due semisco-nosciute cittadine di Gorlice e Tarnow una breccia di oltre 40 km d’ampiezza. 
La conseguente ritirata zarista permise la liberazione di Przemysl ai primi di giugno e quella di Leopoli il 21 dello stesso mese, ma già da prima il successo ottenuto nelle pianure galiziane aveva avuto l’effetto di sbloccare la situazione sui Carpazi: penetrando nelle retrovie russe, infatti, le colonne austroungheresi e germaniche piegarono in parte verso sud-est per dilagare nell’area pedemontana ad oriente della catena montuosa, con l’obiettivo di sbarrare le valli scendenti dal crinale occupato dalle divisioni zariste nell’inverno precedente. Il rischio gravissimo di perdere interi corpi d’armata, intrappolati sulle creste carpatiche, venne scongiurato dallo Stato maggiore dello zar mediante una dolorosa e precipitosa ritirata che restituì anche quest’area al controllo austriaco.
Tutto il fronte austro-tedesco si era ormai messo in moto e per la fine d’agosto i russi avevano perso almeno 300.000 prigionieri (ma alcune fonti parlano di oltre mezzo milione). L’intera Galizia e la Bucovina erano state liberate dall’invasore, la Polonia , la Curlandia e la Lituania russe erano ormai sotto il controllo degli imperi centrali e la nuova linea del fronte si stendeva pressochè rettilinea, quasi completamente in territorio russo, dalla piazzaforte zarista di Riga, sul mar Baltico, fino al fiume Dniestr.
La disfatta di Gorlice-Tarnow tenne in ginocchio per mesi le armate russe. Carenti di tutto, fuorchè di materiale umano, esse non furono in grado di riprendere l’iniziativa in Galizia fino al completamento della riorganizzazione, terminata a 1916 inoltrato.
Nel giugno di quell’anno l’offensiva del generale Brussilov, mirante a rioccupare la Galizia , la Bucovina e la Volinia, in un mese e mezzo di combattimenti fece ancora una volta breccia nel tratto di fronte affidato a truppe esclusivamente austriache, mettendo in rotta due intere armate, catturando oltre 200.000 prigionieri e costringendo nuovamente all’intervento ingenti forze germaniche per turare la falla.. Esauritosi dopo un’avanzata di un centinaio di chilometri, il nuovo sforzo russo non ebbe comunque esiti risolutivi e dopo alcune operazioni controffensive germaniche ed austroungheresi la situazione tornò statica.
La routine della guerra di trincea si era ormai consolidata anche in Galizia quando, nel tragico anno 1917, l’impero degli zar cadde preda delle convulsioni rivoluzionarie. Un’ultima offensiva venne tentata dalle forze russe nell’estate del ’17, per decisione del governo provvisorio di Kerenskij, ma il morale delle truppe in linea era a terra, il sistema logistico di retrovia versava in uno stato di quasi totale paralisi e la penuria di armi e munizioni aveva assunto imensioni tali da non consentire quasi neppure la semplice difesa delle posi-zioni precedenti. Praticamente prive di appoggio d’artiglieria, le masse di fanti uscite nonostante tutto all’assalto sui Carpazi orientali si arenarono ben presto di fronte ai reticolati austrotedeschi, sbandandosi immediatamente o arrendendosi in massa, spesso senza neppure iniziare il combattimento.
Lo sfacelo in cui l’esercito e la nazione russa erano precipitati consentì nei mesi seguenti una vera marcia trionfale alle baldanzose forze germaniche e concesse una rapida e quasi indolore avanzata persino alle esauste truppe dell’Austria-Ungheria che poterono così riguadagnare anche le ultime posizioni loro strappate dall’offensiva di Brussilov nel 1916. Nell’autunno ’17 la Russia era ormai militarmente fuori gioco, ma le trattative di pace si protrassero fino al 3 marzo 1918, quando venne siglato il trattato di pace, tra gli imperi centrali e la nuova repubblica dei soviet, presso la cittadina di Brest-Litowsk.
 

Il fronte serbo

L’area balcanica nella quale era scoccata, a Sarajevo , la scintilla destinata ad incendiare la polveriera europea rimase inizialmente quasi emarginata dalle operazioni militari a causa del preponderante peso subito assunto dalle operazioni sul fronte della guerra austro-russa. 
Per piegare la Serbia, compito ritenuto dagli strateghi austroungarici assolutamente secondario e facilmente conseguibile stante la sproporzione delle forze in campo, era stato previsto l’impiego di tre armate (2ª, 5ª e 6ª). Il contingente si era però ridotto subito di un terzo quando, ancora alla metà dell’agosto del ’14, la 2ª armata aveva dovuto essere messa a disposizione del fronte galiziano ove il conflitto stava assumendo prospettive preoccupanti. 
Il 12 agosto il comandante in capo delle forze imperiali del settore balcanico, l’ottuso generale Oskar Potiorek, pretese comunque di attaccare Belgrado e l’intero esercito serbo, ammontante a circa 270.000 uomini, pur disponendo di forze non superiori ai 250.000 soldati. Ma l’esperienza delle recentissime guerre balcaniche aveva efficacemente preparato i serbi, che per di più dovevano difendere un territorio ad essi perfettamente noto e potevano contare su un “materiale umano” estremamente motivato alla difesa della patria. Al contrario l’esercito asburgico, anchilosato dai decenni di pace seguiti alle ormai datate vittorie di Custoza e di Lissa, conosceva la guerra quasi solo attraverso la simulazione delle grandi manovre e si muoveva, con supporto logistico assolutamente inadeguato, su di un territorio accidentato, ostile e semisconosciuto. 
La situazione, dopo i primi quattro giorni di avanzata oltreconfine, divenne rapidamente insostenibile di fronte ai decisi contrattacchi serbi: le male equipaggiate e peggio armate milizie agli ordini del re Pietro di Serbia e dell’anziano generale Putnik respinsero rapidamente le forze austriache nel più disastroso disordine, penetrando addirittura in Bosnia ed in Voivodina: a fine agosto le forze imperiali, ormai sulla difensiva, avevano perso quasi 23.000 uomini contro i 16.000 dei serbi.
Solo nel novembre successivo Potiorek riuscì a riprendere l’iniziativa, dopo aver preteso che il contingente ai suoi ordini fosse rafforzato anche con reparti tratti dalle unità reclutate in Tirolo. Sia pure tra le proteste dei comandi locali, che vedevano allontanarsi verso fronti sconosciuti le truppe teoricamente destinate alla difesa del suolo patrio, venne così inviato nei Balcani anche l’intero 1° reggimento del Landsturm tirolese: uomini anziani (dai 33 ai 42 anni!) i quali, impiegati sempre in prima linea, fecero il possibile in condizioni impossibili. 
Vessati dalla resistenza serba e dal maltempo, che aveva trasformato ogni pianura in una limacciosa distesa di fango, gli austriaci solo il 2 dicembre riuscirono ad occupare Belgrado ma si trattò di un successo effimero. Il violento ritorno offensivo dell’avversario, infatti, costrinse nuovamente Potiorek ad ordinare la ritirata ed il 15 dicembre il bollettino di guerra serbo poteva trionfalmente annunciare che “… sul territorio serbo non è a tutt’oggi rimasto alcun soldato austriaco …. in libertà”. Tra morti, feriti e prigionieri, gli austriaci avevano infatti perso circa 140.000 uomini e lo stesso 1° reggimento del Landsturm tirolese, entrato in battaglia con 2877 militari, era ridotto a soli 1210 uomini. 
Meglio era andata per i serbi, i quali tuttavia, con 91.000 feriti, 20.000 prigionieri e 22.000 morti, avevano visto letteralmente consumarsi il proprio esercito regolare; che infatti, riconquistato per l’ultima volta l’intero territorio nazionale, non fu più in grado di riprendere l’iniziativa.
Nel 1915, l’entrata in guerra della Bulgaria al fianco degli imperi centrali e l’impegno di forze germaniche permisero finalmente di stritolare la riottosa Serbia con un attacco da tre direzioni: a fine anno, costretti ad abbandonare la propria terra, re Pietro ed il suo Stato maggiore, alla testa dei resti dell’esercito e con-ducendo nel ripiegamento anche circa 75.000 prigionieri austriaci, si fecero strada in pieno inverno attraverso l’impervio territorio montuoso tra Serbia ed Albania, cercando disperatamente di arrivare all’Adriatico. 
Qui una forza navale mista italo-franco-inglese attendeva per l’evacuazione tra Valona, Durazzo e San Giovanni di Medua. 
La penosa ritirata, in mancanza quasi totale di viveri, tra gli attacchi dei predoni albanesi e l’imperversare del maltempo, disseminò di cadaveri la rotta verso il mare. E meno di 30.000 dei 75.000 prigionieri austriaci arrivarono vivi all’imbarco per l’Italia.
Quella che seguì, nell’area balcanica ma fuori dalla Serbia ormai definitivamente occupata, fu una guerra che ebbe protagonista principale l’esercito bulgaro impegnato contro gli alleati italo-franco-inglesi che avevano aperto un fronte meridionale tra l’Epiro e Salonicco. Alle forze austriache spettò l’ingrato ma numericamente modesto compito di controllare l’irrequieto territorio interno dell’Albania, scivolato nella totale anarchia dopo la definitiva evacuazione italiana che aveva limitato la presenza delle regie truppe alla sola regione attorno a Valona. E le cose non mutarono sensibilmente sino al tracollo delle armate bulgare nel settembre/ottobre del 1918.
 

Il fronte italiano

Troppo note sono le vicende sviluppatesi tra il 24 maggio 1915 ed il 4 novembre 1918 sul fronte della guerra italo-austriaca per doversi dilungare sul tema. Tuttavia, allo scopo di completare l’inquadramento delle vicende e dei luoghi che cent’anni orsono videro combattere, soffrire e morire gli uomini di Grigno e di Tezze, alcuni brevi e schematici accenni non possono essere omessi.

1915

La dichiarazione di guerra del regno d’Italia il 24 maggio non coglieva di sorpresa l’ex alleato asburgico, che peraltro si trovava in una situazione di estremo imbarazzo militare, attanagliato com’era tra gli inattesi rovesci della campagna contro la Serbia e le catastrofiche sconfitte che sul fronte galiziano avevano ormai spazzato via il fior fiore delle armate imperiali. La carenza di materiale umano aveva ormai richiesto l’estensione della leva ai ventenni (novembre 1914) ed addirittura ai cinquantenni (maggio 1915). Raschiando il fondo del barile, con il richiamo alle armi degli iscritti al tirassegno locale (bersaglieri immatricolati, o Standschützen) e l’approntamento di una decina di battaglioni di milizia ferroviaria, si riuscì a predisporre un embrione di presidio per il fronte del Tirolo dallo Stelvio al Cadore. Con reparti frettolosamente richiamati dalla Serbia e dall’interno della monarchia fu poi possibile consolidare il rimanente tratto di fronte tra Carnia e mare Adriatico passando per la valle dell’Isonzo e l’altopiano carsico. Contro le linee del fronte isontino, per tutto il 1915, si susseguirono le massicce offensive dell’esercito italiano senza riuscire a conseguire guadagni territoriali significativi, nonostante le gravissime perdite in uomini e, soprattutto, in ufficiali. Era infatti verso le pianure iugoslave, tra Klagenfurt e Lubljiana, che puntava il disegno strategico del Comando supremo italiano per arrivare allo scontro finale in campo aperto, scontro che avrebbe dovuto ottimisticamente liberare la strada per Vienna. Sulle montagne del Tirolo, dove lo sforzo bellico italiano non aveva invece reali obiettivi strategici (il “saliente trentino” da recidere alla base con attacchi dalla Valsugana e dal Passo del Tonale era una semplice trovata propagandistico-giornalistica), l’avanzata italiana fu abbastanza consistente, ma sempre e solo nella misura in cui il ripiegamento austriaco su linee precedentemente stabilite l’aveva consentita. L’occupazione dei centri abitati della Valsugana orientale, da Tezze e Grigno fino a Roncegno e Marter, permise tuttavia alla stampa italiana ed ai bollettini di guerra di Cadorna di controbilanciare le funeste notizie provenienti dal fronte carsico-isontino. Non ci rendeva però conto del grave sbilanciamento in avanti, su posizioni assolutamente sfavorevoli ad una difesa efficace e prolungata, che si veniva a cristallizzare proprio là, sul “saliente trentino”, dove il buon senso e l’acume tattico dello stesso Cadorna riconoscevano la necessità di proteggere il fianco sinistro ed il tergo del gros-so dell’esercito operante ad oriente del Veneto.

1916

La prima parte dell’anno fu caratterizzata da ulteriori “spallate” offensive italiane contro le linee del Carso, anche in questo caso senza risultati di rilievo ma con grave logoramento delle fanterie, spese senza ritegno in attacchi a posizioni praticamente imprendibili. Fiono a quando, alla metà di maggio, sugli altopiani di Lavarone-Folgaria e Vezzena scattò la cosiddetta “offensiva di Primavera” che avrebbe dovuto travolgere lo schieramento italiano nell’area montuosa dell’altopiano di Asiago fino a permettere la discesa delle forze im-periali nella pianura veneta tra Vicenza e Bassano. La manovra, dopo tre settimane di successi, fallì per un soffio, riuscendo gli italiani ad arginare la marea avanzante proprio sull’estremo limite della barriera montana: dal Pasubio al Novegno, dal monte Cengio alle Melette lo sforzo bellico austriaco si esaurì, oltreché per la resistenza italiana (facilitata peraltro dall’accorciamento delle linee di rifornimento proprie e dall’estremo allungamento di quelle dell’avversario, costretto a realizzare ex novo una rete logistica in alta montagna), anche a causa dell’offensiva scatenata in giugno dalle armate zariste del generale Brusilov. Le forze russe, approfittando della riduzione numerica e soprattutto qualitativa dei presidi austriaci sul fronte orientale a causa dello spostamento delle migliori unità verso il teatro operativo italiano, riuscirono qui a sfondare lo schieramento austriaco , avanzando per centinaia di chilometri e catturando centinaia di migliaia di prigionieri. Il Comando supremo asburgico, pressato dall’alleato germanico, fu costretto a ritrasferire ad oriente forze consistenti che vennero così definitivamente a mancare sugli Altipiani ove la resistenza italiana si era fatta sempre più ostinata ed efficace.
Dopo una fallita controffensiva italiana verso Asiago, che si era arenata sulle posizioni scelte dall’avversario per la resistenza invernale, Cadorna intuì lo sbilanciamento austriaco verso il Tirolo a scapito delle difese orientali: un rapido spostamento di forze per linee interne verso il Friuli permise quindi nell’agosto agli italiani di scatenare la “sesta battaglia dell’Isonzo”, che travolse lo schieramento austriaco attorno a Gorizia e permise l’occupazione della città, di enorme valore propagandistico ma di scarsa rilevanza militare. La presa di Gorizia fu il maggiore successo italiano del 1916, dopo il quale l’attenzione di Cadorna si concentrò sulla preparazione di un’imponente offensiva sugli altipiani, richiesta dagli alleati per evitare lo spostamento di forze austriache verso il fronte occidentale franco-tedesco. La cosiddetta “azione K” dovette tuttavia essere sospesa a causa del precoce arrivo di un terribile inverno, gelido e caratterizzato da abbondantissime precipitazioni nevose.

1917

Il 1917, nonostante i guadagni territoriali intorno a Gorizia, vide riproporsi lo schema già noto delle spallate offensive, questa volta contro l’altopiano della Bainsizza : l’unico reale risultato fu il logoramento materiale e morale dell’esercito italiano che pose le basi del tracollo dell’ottobre presso Caporetto. L’esercito austriaco infatti, stremato da oltre due anni di battaglie difensive, nell’estate del 1917 annunciò all’alleato germanico l’assoluta necessità di un consistente aiuto per evitare il crollo del sistema trincerato a protezione di Trieste. Venne così programmata per ottobre un’offensiva, concepita inizialmente come “azione di alleggerimento” destinata a rigettare gli italiani oltre il fiume Tagliamento, con la partecipazione di un consistente nucleo di truppe tedesche. L’attacco, scattato il 24 ottobre nell’alta valle dell’Isonzo, tra Plezzo e Tolmino, contro ogni aspettativa affondò nella difesa italiana come una lama rovente nel burro: la 2 armata del generale Capello si disfece letteralmente, perdendo oltre 300.000 prigionieri e obbligando in pochi giorni il regio esercito a ripiegare lungo l’intero fronte dall’Adriatico alla Valsugana. La nuova linea, assestatasi a fine novembre tra le Melette di Foza, il canal di Brenta, il massiccio del Grappa ed il corso del Piave, nel corso della battaglia d’arresto del novembre-dicembre 1917 resse a stento, ma resse, agli accaniti sforzi austrotedeschi volti a chiudere definitivamente la partita.

1918

I primi mesi dell’anno furono utilizzati dagli austriaci, dopo il ritiro delle truppe germaniche, per consolidare l’occupazione e lo sfruttamento delle vaste aree di territorio veneto e friulano occupate alla fine dell’anno precedente. Gli italiani, dal canto loro, erano occupati a ricostituire le disorganizzate fila dell’esercito migliorando la condizione individuale del fante, fino a d allora considerato alla stregua di un’insignificante e decerebrata pedina; ne beneficiò grandemente anche il morale della truppa la quale, chiamata ora a difendere il suolo patrio, diede prove di abnegazione e valore assolutamente inattese perfino da parte alleata. Al punto che il successo nella battaglia difensiva del giugno, ultimo disperato tentativo austriaco di obbligare l’Italia a chiedere la pace, e la progressiva ricostituzione del potenziale offensivo permisero agli strateghi del regio esercito di programmare per la primavera del 1919 l’attacco finale. Gli eventi sugli altri fronti di guerra decisero però diversamente e a fine ottobre apparve chiara agli italiani l’assoluta necessità di scatenare un’offensiva che portasse al crollo la compagine militare asburgica che notizie d’oltrefronte dichiaravano già allo sbando. In caso contrario sarebbe stato troppo umiliante dover accettare che la guerra in Italia venisse decisa dagli sforzi degli alleati in Francia e nei Balcani. La “battaglia di Vittorio Veneto”, frettolosamente iniziata nell’anniversario di Caporetto il 24 ottobre 1918 con l’appoggio di forze inglesi e francesi, si scontrò però per quasi una settimana con l’incrollabile crosta militare dell’impero dell’aquila bicipite. Favorito anche dal maltempo, che ingrossò anche il Piave ritardandone l’attraversamento alle forze alleate, solamente dopo il 31 ottobre lo schieramento austriaco sul Grappa crollò di schianto: con il vuoto alle spalle, e gli italiani infiltratisi lungo i solchi vallivi, gli stremati difensori dovettero ben presto rassegnarsi all’onta della prigionia, ben presto accomunati in essa alle truppe che, pur sulla via di casa, un’equivoca interpretazione delle clausole armistiziali del 3 novembre aveva fatto catturare fino alle 16.00 del giorno seguente. 
 

La fine di un impero e la vendetta del regno

Con l’armistizio del 3 novembre 1918, il destino del vetusto impero multietnico che per secoli aveva condizionato le sorti dell’Europa era segnato. La fine delle ostilità con l’Italia e gli alleati sottintendeva la ineludibile resa dei conti con le tendenze centrifughe che sin da prima di Sarajevo avevano minato forza ed unità d’intenti dell’entità statale austro ungherese.
La sconfitta dell’impero era anche, e soprattutto, la sconfitta dell’imperatore: tutto quello che in sessantotto anni di regno Francesco Giuseppe I aveva cercato di preservare, pur tra incertezze ed errori, si dissolse letteralmente nel biennio rimasto al suo successore Carlo 1°.
Fu un’Austria mutilata, ridotta alla sola porzione germanofona, quella che venne consegnata alla repubblica sorta dalle ceneri dello stato asburgico. E la mutilazione più dolorosa fu probabilmente quella inferta dai trattati di pace con la separazione del Tirolo Italiano e del Sud-Tirolo tedesco. 
Nel Trentino passato all’Italia gli ex soldati austriaci si ritrovarono doppiamente beffati. Da un lato, l’Impero, cui erano legati dal giuramento di fedeltà e a difesa del quale per cinque anni avevano combattuto e sofferto, non esisteva più. Veniva così a mancare la Patria che primariamente avrebbe dovuto loro riconoscenza . Dall’altro lato, essi erano divenuti, dall’oggi al domani, cittadini proprio di quel Regno d’Italia che per quattro anni avevano combattuto e che di ciò non poteva ovviamente mostrarsi riconoscente. Le conseguenze, tanto più dopo l’affermarsi del regime fascista nel primo dopoguerra, furono multiformi, manifestandosi nella assenza di riconoscimenti pensionistici, nel divieto di radunata sotto le insegne di associazioni combattentistiche ex-imperiali, nei divieti di commemorazione delle battaglie e campagne “non italiane” alle quali essi avevano preso parte, fino addirittura al divieto di rievocare in pubblico, men che meno in lingua tedesca, quei tragici eventi.
Ne’ per i caduti la sorte fu più benigna: nei paesi del “Trentino redento”, a partire dal 1920 iniziarono a spuntare come funghi lapidi e cippi, monumenti e memoriali, purchè destinati a celebrare i fasti dell’irredentismo vittorioso. Ma la memoria dei caduti trentini morti con la divisa dell’Austria-Ungheria trovò sin da subito poco spazio: nell’ottica del vincitore, essi non si erano infatti immolati “per la Patria” bensì “per il nemico”. La fascistissima, o quantomeno ”irredentissima”, “Regia Commissione Provinciale per la conservazione dei monumenti”, istituita ad hoc, si attivò dunque affinchè i caduti trentini non trovassero ricordo o celebrazione al di fuori degli spazi cimiteriali: piazze e strade dovevano essere lasciate alla glorificazione della vittoria delle armi italiche e dei martiri irredenti, come costantemente preteso dalla Legione Trentina, l’associazione che in provincia riuniva tutti i “patrioti” devoti alla causa del tricolore. Ma nemmeno nei cimiteri il ricordo dei soldati trentini potè trovare libera espressione: la famigerata Commissione decideva non solo forma e dimensioni dei monumenti commemorativi, ma persino il testo che avrebbe dovuto concretizzare la memoria. Giammai si sarebbe dovuto leggere che i soldati trentini erano caduti “per difendere la propria terra” o “per l’imperatore”! Al più essi avrebbero potuto essere stati “costretti a pugnare per l’oppressore” o a “servire l’iniquo regime dell’aquila bicipite”.
Non deve fare meraviglia quindi che, dopo il fermento iniziale legato alla freschezza del dramma, il numero di monumenti ai caduti eretti nei piccoli centri del Trentino sia progressivamente diminuito fino a fermarsi quasi completamente nel biennio 1927–1928. Di pari passo andò scemando anche l’attività di ricerca dei dispersi da parte delle famiglie, man mano che andò inasprendosi l’atteggiamento delle autorità amministrative e militari italiane peraltro inizialmente ben disposte e collaboranti di fronte alla disperata richiesta di intere comunità. Nella seconda metà degli anni venti, infine, il fascismo impose alle amministrazioni comunali l’assoluto divieto di collaborazione con istituzioni estere (leggasi “associazioni combattentistiche operanti nel Tirolo Austriaco”) impegnate nella ricerca e nella catalogazione delle informazioni sui caduti del Tirolo Italiano. Anche gli “Ehrenbücher”, i “Libri degli Eroi”, faticosamente com-pilati negli anni dalla Kaiserjägerbund di Innsbrück, furono pertanto condannati ad una dolorosa incompletezza.
Identità e vicende belliche di innumerevoli caduti trentini, tra essi molti cittadini della Valsugana orientale e del Tesino, sparirono nelle nebbie di un colpevole oblìo. 
Cent’anni dopo, finalmente, quelle stesse nebbie si sono quasi completamente dissolte.

 

Luca Girotto